by Federica Boragina and Giulia Brivio

E se l’arte e la casa per una volta coincidessero?
Da dove nasce l’idea di organizzare mostre d’arte in spazi domestici? Da quando esiste questa pratica curatoriale? Quale futuro potrà avere?

Nel lontano dopoguerra, in Italia, Giorgio de Chirico organizzava le sue mostre nell’appartamento di via Mario de’ Fiori a Roma, perché “le gallerie romane si accendevano per il nuovo, che noi abbiamo poi rapidamente dimenticato”.
Il racconto prosegue: “In una di queste mostre, con i quadri sul divano e sulle poltrone del salotto, fu invitata Palma Bucarelli, direttrice della Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, galleria che, per antonomasia, molti chiamavano il Museo degli Orrori. Mentre Giorgio de Chirico doveva ingegnarsi in spazi espositivi ricavati alla buona, la Galleria Nazionale metteva a disposizione le sue capienti sale per le opere del suo rivale di gioventù, Picasso, e la indomita direttrice convinceva il capo dello Stato a presenziare al vernissage dello spagnolo, fatto raro a quei tempi, ma poi nonostante tanta ufficialità, l’artista acclamato non si degnava nemmeno di un viaggio da Parigi per partecipare alla festa che gli si tributava nella città eterna”.

La censura, la ribellione al sistema, il desiderio di indipendenza, sono alcune delle ragioni che motivarono la scelta di allestire mostre in spazi domestici. A partire dalla fine degli anni Settanta furono la ricerca di nuovi formati curatoriali e l’affermazione di nuove tendenze dell’arte contemporanea che fecero entrare in casa artisti, curatori e spettatori.

Nel 1991 Hans Ulrich Obrist organizza a San Gallo The Kitchen Show, una mostra che ha luogo nella cucina di casa sua, e così ricorda quella situazione: “Agli inizi degli anni Novanta, molti artisti si sentivano limitati dalle possibilità offerte da musei e gallerie, e volevano riesaminare la possibilità di presentare
i loro lavori in modi diversi, in altri contesti, com’era frequente negli anni Sessanta e Settanta”. A ospitare Chambre 709 è ancora un ambiente domestico, anche se un’abitazione temporanea, una stanza all’Hotel Carlton Palace a Parigi nel 1993. In questo caso Obrist invita moltissimi artisti ad allestire opere nella camera d’albergo in cui viveva. Queste scelte curatoriali sottolineano l’importanza dell’ambientazione nella realizzazione della mostra, considerandola un mezzo necessario per creare la magica armonia che unisce tutti gli elementi costitutivi del progetto espositivo.

È l’antitesi del tanto lodato e praticato white cube?
È probabilmente un approccio sterile quello che tenta di creare contrapposizioni fra l’asettica galleria completamente bianca, che evita ogni possibile distrazione per l’osservatore, e l’ambientazione domestica, in cui l’osservatore fatica a distinguere tra le opere in mostra e i ricordi, le fotografie di famiglia, le tracce della vita di chi abita quella casa.

La contrapposizione ci porterebbe a chiederci quale delle due scelte sia migliore, ma non è questo il nostro obiettivo. Le mostre pensate in un appartamento abitato nascono con un’intenzione e una volontà completamente diversa dalle esposizioni pensate in un white cube: in quest’ultimo caso la forza comunicativa dell’arte è affidata esclusivamente all’opera, simulacro da osservare in una religiosa ritualità, avvolta nello spazio vuoto che assume un valore semantico e si interpone fra l’opera e lo spettatore, condizionandone il dialogo. Nel caso delle mostre domestiche, invece, il tentativo è di camminare lungo il percorso in cui l’arte e la vita si intrecciano, quasi senza più distinguersi, proponendo l’arte come esperienza concreta, fisica, come declinazione della vita quotidiana.

Marcel Duchamp sosteneva che l’opera esiste solo nel momento in cui qualcuno la guarda: riconoscendo il valore dell’affermazione duchampiana, proviamo a chiederci se l’opera d’arte cambia rispetto al comportamento del suo osservatore. La ritualità asettica dello spazio della galleria in cui l’osservatore perde ogni riferimento al fine di focalizzare la propria attenzione solo sull’opera, conduce, con frequenza, a un senso di disorientamento, di disagio, di imbarazzo, come se il dialogo fra l’opera e l’osservatore fosse troppo gravoso per quest’ultimo.
Entrando in una casa, invece, seppur con circospezione e timida riverenza, si è avvolti in un clima, estraneo all’inizio, ma lentamente avvolgente, e lo sguardo scorre veloce sui quadri alle pareti, così come sulle mensole delle librerie, curioso e attento. In una prima fase l’osservatore non concentra certamente la propria attenzione sull’opera, ma scruta quelle tracce di vita disseminate fra i mobili e sui pavimenti, osserva il colore del divano e dei muri, e in quella mappa mnemonica e privata rintraccia, quasi casualmente, frammenti di arte. Ecco che l’imbarazzo, la difficoltà di una conversazione vis-à-vis con l’opera si consuma in un incontro accidentale.

Rifuggendo da ogni possibile abbaglio della psicologia e sociologia spicciola, è inevitabile osservare come la timidezza che accompagna le situazioni e i luoghi istituzionali non siano presenti in uno spazio domestico dove le relazioni sociali e il dialogo sono incoraggiati e condivisi e viene da chiedersi: tale necessità di dialogo, di accoglienza, di ospitalità è forse sintomatico di una condizione dell’uomo contemporaneo?

Il confronto con le gallerie e i musei porta alla luce un altro aspetto che aiuta a comprendere le motivazioni dell’esistenza di mostre in spazi domestici: la carenza delle istituzioni nel sistema dell’arte. Le difficoltà che un giovane curatore incontra per organizzare una mostra, i limiti che si presentano a un artista che vuole comunicare il suo lavoro, sono enormi e sono pochissime le istituzioni pubbliche e private che possono sostenere gli artisti emergenti. L’unico ambito per sperimentare le proprie idee, con una spesa minima, rimane lo spazio privato della casa.

Questa ricerca non ha lo scopo di storicizzare il fenomeno delle mostre domestiche, ma più semplicemente, di percorrerlo in chiave critica, bussando alle porte, interrogando gli ospiti e gli artisti, cercando di capirne l’origine e ipotizzando un futuro, sicuri di dimenticare qualche casa nel nostro viaggio.
Gli esempi proposti intendono dimostrare che l’arte contemporanea può essere parte della nostra esperienza quotidiana e che le mura domestiche possono essere il luogo ideale per custodirla. In fondo, aveva ragione Dorothy:
“There’s no place like home”.


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